Quando la spedizione si concluse, portai con me più di semplici fotografie. Ogni immagine era un pezzo di un puzzle più grande, una testimonianza della fragilità del nostro pianeta e della necessità di agire.
I ghiacci artici visti dall'alto
Mi chiamo Valentino Desi, e da anni utilizzo la mia macchina fotografica per raccontare le storie del nostro pianeta, storie che spesso parlano di bellezza, ma sempre più spesso di perdita. Quando ho deciso di unirmi a una spedizione scientifica nell’Artico, il mio obiettivo era chiaro: documentare il drammatico scioglimento dei ghiacci, un processo che minaccia non solo questi paesaggi straordinari, ma l’intero equilibrio del nostro pianeta. La mia missione non è semplice. La fotografia non basta per fermare il cambiamento climatico, ma può fare qualcosa di altrettanto potente: far vedere alle persone ciò che sta accadendo. Portare sotto i loro occhi l’urgenza di un problema che spesso appare distante. Ed è con questa convinzione che sono partito, accompagnato dal mio collega e amico Paolo, verso una delle regioni più remote e vulnerabili della Terra.
Arrivare nell’Artico è come entrare in un altro mondo. Dopo giorni di viaggio, con aerei e navi che ci hanno portato sempre più lontano dalla civiltà, abbiamo messo piede su un terreno che sembrava appartenere a un altro pianeta. La luce, diversa da qualsiasi altra che avessi mai visto, si rifletteva sul ghiaccio in mille sfumature di bianco e blu. Il vento freddo tagliava la pelle, ma portava con sé un silenzio così profondo che sembrava assorbire ogni pensiero. Il paesaggio era mozzafiato, ma non potevo ignorare le tracce del cambiamento. Blocchi di ghiaccio che si staccavano dagli iceberg, acque libere là dove avrei dovuto vedere distese ghiacciate. Paolo, esperto di cambiamenti climatici, indicava segni evidenti: “Vedi quei crepacci? Si stanno formando più velocemente di quanto credessimo possibile.” Ogni passo sul terreno ghiacciato mi ricordava perché ero lì. Questo non era solo un viaggio, ma una missione. Il tempo per agire si sta esaurendo, e ogni immagine che avrei catturato doveva portare con sé un messaggio: l’Artico sta cambiando, e con esso, il nostro mondo intero.
Valentino mentre scatta una foto dei ghiacci
Ogni giorno, il ghiaccio dell’Artico si scioglie un po’ di più, portando con sé un messaggio urgente e inequivocabile. Negli ultimi trent’anni, il tasso di scioglimento è aumentato del 72%, un dato che spaventa gli scienziati di tutto il mondo. L’Artico, una volta considerato una delle regioni più stabili e fredde del pianeta, sta perdendo circa 13.000 chilometri quadrati di ghiaccio all’anno, l’equivalente di quasi metà della superficie della Sardegna. Questa perdita non è solo un problema locale. Lo scioglimento dei ghiacci artici contribuisce in modo significativo all’innalzamento del livello del mare, che mette a rischio milioni di persone che vivono in aree costiere. Secondo il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC), il livello del mare potrebbe aumentare fino a un metro entro il 2100 se le emissioni di gas serra non saranno drasticamente ridotte.
Ma gli effetti dello scioglimento vanno oltre il mare che avanza. L’Artico funge da “aria condizionata” per il pianeta, riflettendo una grande quantità di luce solare grazie alla sua copertura ghiacciata. Con la riduzione dei ghiacci, il cosiddetto effetto albedo diminuisce, e più calore viene assorbito dagli oceani, accelerando ulteriormente il riscaldamento globale. È un circolo vizioso che rischia di diventare irreversibile. Paolo mi raccontava come questa crisi stia già trasformando gli ecosistemi: “L’orso polare, simbolo dell’Artico, è in pericolo. Con il ghiaccio marino che si ritira, ha sempre meno spazio per cacciare e sopravvivere. Se il riscaldamento continua a questo ritmo, potremmo perdere questa specie iconica entro pochi decenni.” Osservando un iceberg che lentamente si sgretolava davanti a noi, capivo che ciò che stavo vedendo non era solo un pezzo di ghiaccio che cadeva in mare, ma il segnale tangibile di un pianeta che si sta trasformando troppo velocemente. Le immagini che stavo catturando non erano solo fotografie: erano testimonianze, prove di una crisi che non possiamo più ignorare.
La base del gruppo di ricerca in Islanda
L’Artico non è solo una vittima del riscaldamento globale: è anche un indicatore di ciò che accadrà al resto del pianeta. Le temperature nella regione stanno aumentando quasi tre volte più velocemente rispetto alla media globale, un fenomeno noto come amplificazione artica. Ciò che accade qui è come una lente di ingrandimento sul futuro: la perdita di ghiaccio marino, lo scioglimento del permafrost e il cambiamento degli ecosistemi sono tutti segnali di un equilibrio che si sta spezzando. Uno dei meccanismi più preoccupanti è il già citato effetto albedo. Il ghiaccio, bianco e riflettente, respinge gran parte della luce solare. Quando il ghiaccio si scioglie e viene sostituito da oceani scuri, più calore viene assorbito, accelerando ulteriormente il riscaldamento. Questo effetto crea un ciclo di feedback positivo, dove meno ghiaccio significa più calore, e più calore significa meno ghiaccio.
Le conseguenze sono globali. Il cambiamento nei modelli meteorologici sta già provocando un aumento degli eventi estremi: uragani più intensi, siccità prolungate e inondazioni devastanti. Paolo mi spiegava come queste trasformazioni non siano più ipotesi lontane: sono realtà tangibili che influenzano milioni di persone ogni anno. “E poi c’è il permafrost,” aggiungeva con una nota di preoccupazione. “Quando si scioglie, rilascia enormi quantità di metano, un gas serra molto più potente della CO2. Questo potrebbe innescare un’accelerazione incontrollata del riscaldamento.” Ogni giorno trascorso nell’Artico mi faceva sentire l’urgenza di queste parole. Vedere un paesaggio così vasto e bello trasformarsi davanti ai miei occhi non era solo un’esperienza visiva, ma un promemoria del fragile equilibrio che sostiene la vita sulla Terra. Era impossibile non chiedermi: cosa possiamo fare per fermare tutto questo?
Lo scioglimento dei ghiacci artici non riguarda solo il paesaggio: è una crisi che colpisce la vita di milioni di persone e di innumerevoli specie. Mentre camminavo tra distese ghiacciate e osservavo iceberg sgretolarsi nelle acque fredde, non potevo fare a meno di pensare alle popolazioni indigene che chiamano queste terre casa. Comunità come quella degli Inuit, che da secoli dipendono dal ghiaccio per cacciare, muoversi e vivere, vedono il loro stile di vita minacciato dall’erosione delle coste e dalla scomparsa della fauna. Paolo mi raccontava di un villaggio costiero che aveva visitato l’anno prima, dove le case erano state abbandonate a causa dell’innalzamento del livello del mare. “È devastante,” diceva. “Per queste persone, il cambiamento climatico non è una teoria: è una realtà che li costringe a lasciare le loro terre.”
Anche l’ecosistema marino sta subendo trasformazioni drammatiche. L’orso polare, simbolo dell’Artico, lotta per sopravvivere. Con il ghiaccio marino che si riduce, le sue possibilità di caccia si riducono drasticamente, mettendo a rischio la sua sopravvivenza. Specie meno visibili, come i gamberetti artici o i krill, stanno vedendo i loro habitat cambiare, e con loro intere catene alimentari sono in pericolo. Ma le conseguenze non si fermano qui. Lo scioglimento dei ghiacci contribuisce all’innalzamento del livello del mare, che minaccia città costiere e piccole isole in tutto il mondo. Secondo alcune stime, luoghi iconici come Venezia, New York e le Maldive potrebbero subire danni irreparabili entro la fine del secolo. Tuttavia, ciò che mi colpiva di più non era solo la scala del problema, ma la sua velocità. L’Artico che vedevo oggi non era lo stesso di dieci anni fa, e sapevo che quello di domani sarebbe stato ancora diverso. Ogni immagine che catturavo era un grido d’aiuto, un tentativo di immortalare ciò che rischia di essere perso per sempre.
Valentino e Paolo di fronte ai ghiacci
Ogni fotografo ha una responsabilità, e per me la macchina fotografica è molto più di uno strumento artistico: è un mezzo per documentare, sensibilizzare e, spero, ispirare un cambiamento. Nell’Artico, il compito era chiaro: catturare la fragilità e la bellezza di un mondo che si sta sgretolando, letteralmente, davanti ai nostri occhi. Paolo e io passavamo ore studiando il terreno. Esploravamo coste frastagliate, crepacci e laghi di disgelo per trovare il punto perfetto dove posizionare la fotocamera. Lavorare in condizioni estreme era una sfida costante: le temperature gelide intorpidivano le dita, il vento minacciava di destabilizzare ogni scatto e la luce, in continuo cambiamento, richiedeva un’attenzione incessante.
Ricordo un momento in particolare. Stavamo osservando un iceberg che si staccava lentamente da una banchisa. Le crepe nel ghiaccio si allargavano a vista d’occhio, emettendo un suono sordo, quasi un lamento. Quando infine un enorme blocco si staccò e cadde nell’acqua, sollevando un’ondata che fece tremare il gommone su cui ci trovavamo, Paolo si voltò verso di me: “Hai visto? Questo è il cambiamento climatico, in diretta.” In quel momento, scattai una foto che porto ancora nel cuore: un blocco di ghiaccio bianco puro che galleggiava sull’acqua scura, mentre dietro di esso la banchisa si spezzava in pezzi più piccoli. Era un’immagine che parlava da sola, una rappresentazione cruda della bellezza e della distruzione che stavamo documentando. Ogni giorno nell’Artico era una combinazione di fatica e meraviglia. Ogni scatto richiedeva concentrazione e precisione, ma sapevo che ne valeva la pena. Queste immagini non erano solo per me: erano per chi non aveva mai visto l’Artico, per chi poteva ancora essere ispirato a proteggere ciò che resta di questo mondo incredibile.
La base del gruppo di ricerca di notte in Islanda
Le giornate nell’Artico iniziavano presto. L’alba, con il sole basso sull’orizzonte, tingeva di arancione le distese di ghiaccio e l’acqua calma. Paolo e io ci preparavamo in silenzio, indossando strati di abbigliamento tecnico per resistere al freddo pungente, controllando l’attrezzatura fotografica e pianificando il percorso. Ogni decisione era cruciale: la scelta del momento giusto, del luogo ideale, poteva fare la differenza tra uno scatto ordinario e un’immagine che raccontasse una storia. Quel giorno ci dirigemmo verso una zona segnalata dalla guida: una vasta banchisa attraversata da crepacci, con iceberg alla deriva nelle vicinanze. L’atmosfera era surreale: il silenzio era rotto solo dal vento e dai suoni lontani di ghiaccio che si spezzava. Ogni passo sul terreno ghiacciato era una sfida: dovevamo essere attenti a non avvicinarci troppo ai bordi dei crepacci, dove il ghiaccio poteva cedere.
Quando arrivammo in un punto sopraelevato con una vista panoramica, ci fermammo. Davanti a noi, un grande iceberg stava lentamente sgretolandosi. Pezzi di ghiaccio cadevano nell’acqua, sollevando piccole onde che si allargavano in cerchi concentrici. Sembrava un processo lento, ma sapevamo che era una scena accelerata dal cambiamento climatico. “È come vedere una cattedrale che crolla,” disse Paolo. Le sue parole mi colpirono. Guardavo la scena attraverso l’obiettivo, cercando di catturare l’essenza di quel momento: la bellezza e la tragedia racchiuse nello stesso fotogramma.
Più tardi, mentre attraversavamo un altro tratto di ghiaccio, scoprimmo un lago di disgelo che rifletteva il cielo come uno specchio. L’acqua, di un blu profondo, contrastava con il bianco abbagliante della neve intorno. Paolo si fermò e mi fece notare le tracce di orsi polari che si dirigevano verso l’acqua. Erano segni silenziosi di una fauna che lottava per adattarsi a un mondo in cambiamento. Ogni momento in quella giornata era un promemoria dell’importanza del nostro lavoro. Non eravamo lì solo per scattare foto: eravamo lì per essere testimoni, per raccogliere prove di una realtà che rischia di essere dimenticata.
Fotografia di due immensi iceberg sul mare scuro
Lavorare nell’Artico non è mai semplice. Ogni scatto era il risultato di una lotta contro il freddo che intorpidiva le dita, il vento che minacciava di far traballare il treppiede, e il costante rischio di perdere l’attimo perfetto. Ma più di tutto, era una lotta contro la consapevolezza della nostra impotenza di fronte alla vastità del problema. Una delle sfide più grandi era emotiva. Guardare il ghiaccio spezzarsi, sentire il suono profondo e risonante degli iceberg che crollavano nell’acqua, sapere che tutto ciò era il risultato di azioni umane: era un peso difficile da sostenere. “Stiamo assistendo a qualcosa di irreversibile,” mi disse Paolo una sera, mentre rivedevamo le foto della giornata. “Ma almeno stiamo facendo qualcosa per raccontarlo.”
Paolo mi parlò di un’altra spedizione in Groenlandia, dove aveva incontrato una comunità locale costretta a spostarsi perché il ghiaccio che sosteneva le loro case si era sciolto. Mi mostrò una foto di una famiglia che guardava l’oceano, con una tristezza palpabile nei loro occhi. “Non si tratta solo di ghiaccio,” disse. “Si tratta di persone, di vite intere che stanno cambiando.” Le riflessioni sull’impatto del nostro lavoro non mi lasciavano mai. Ogni immagine che catturavo era più di una foto: era una testimonianza, un appello al mondo per vedere ciò che spesso rimane invisibile. Sentivo la responsabilità di essere una voce per questo luogo e per le creature che lo abitano, che non possono parlare per sé.
Ma c’era anche un lato più personale in tutto questo. L’Artico mi faceva riflettere sul mio ruolo come essere umano, come fotografo, come parte di una specie che aveva il potere di distruggere ma anche quello di proteggere. Mi chiedevo: cosa sto facendo per il pianeta? Cosa possiamo fare tutti? La bellezza dell’Artico era un promemoria del perché valeva la pena lottare. Ogni scatto, ogni passo sulla banchisa era un modo per riaffermare l’importanza di preservare ciò che ancora resta. Era una missione che andava oltre di me, oltre le immagini: era un impegno per il futuro.
La base del gruppo di ricerca in Islanda
Ogni angolo dell’Artico racconta una storia di cambiamento. Gli iceberg, un tempo maestosi e imponenti, ora sembrano scheletri galleggianti, frammenti di un passato più stabile. La banchisa si ritira sempre più, lasciando spazio a vasti specchi d’acqua che riflettono un cielo spesso velato. Questo mondo si sta trasformando troppo rapidamente, e il tempo per salvarlo sembra scorrere con la stessa velocità con cui il ghiaccio si scioglie. Durante una delle ultime esplorazioni, Paolo e io ci fermammo davanti a un grande campo di ghiaccio frammentato. Era un paesaggio desolante e al contempo ipnotico: un tappeto di frammenti galleggianti che si allontanavano lentamente, spinti dalla corrente. Paolo indicò un punto in lontananza, dove un gruppo di foche si riposava su un blocco di ghiaccio più grande. “Guarda quelle foche,” disse. “Dipendono dal ghiaccio per sopravvivere, eppure ogni anno hanno sempre meno spazio per vivere.”
Le prove del riscaldamento globale erano ovunque. Le temperature più calde stavano ridisegnando il paesaggio artico e, con esso, il futuro della fauna selvatica e delle comunità locali. Animali come l’orso polare, simbolo di queste terre, erano costretti a nuotare per distanze sempre maggiori in cerca di cibo, con molti che non riuscivano a sopravvivere al viaggio. Eppure, in mezzo a tutta questa tristezza, c’era una bellezza che continuava a emergere. I riflessi della luce sul ghiaccio, il silenzio profondo interrotto solo dal suono delle crepe e delle onde, e la maestosità di un ecosistema che, nonostante tutto, continuava a lottare per esistere.
Questo mondo che si trasforma non è solo una tragedia: è anche un’opportunità per agire, per cambiare il nostro rapporto con il pianeta prima che sia troppo tardi. Ogni immagine che catturavo non era solo una testimonianza, ma anche una speranza: che le persone vedano, capiscano e si mobilitino per proteggere ciò che ancora resta. L’Artico non è solo una regione lontana e fredda: è il termometro del nostro pianeta, un promemoria vivente di quanto sia urgente agire. E mentre il ghiaccio continua a sciogliersi, resta una domanda: siamo pronti a fare ciò che serve per salvare questo mondo che cambia?
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