Il deserto del Namib mi ha insegnato qualcosa che porterò con me per sempre: la felicità non è un luogo da raggiungere, ma un modo di vivere.
Il deserto del Namib irradiato dalla luce del sole
Il deserto non perdona, ma offre risposte a chi è disposto ad ascoltare. Mi chiamo Adriano, e un anno fa mi trovavo in un momento di profonda confusione personale. La mia vita sembrava andare avanti per inerzia: lavoro, relazioni, aspettative. Sentivo di aver perso il contatto con me stesso e con ciò che mi rendeva felice.
È stato allora che ho deciso di partire. Non per scappare, ma per cercare. Avevo bisogno di un luogo che fosse tanto vasto e complesso quanto i miei pensieri, un luogo che mi mettesse di fronte alla mia vulnerabilità. Il deserto del Namib era perfetto. Le sue dune, tra le più alte e antiche del mondo, e il suo silenzio assoluto mi attiravano come una promessa di chiarezza.
Andriano Lisi mentre cammina nel deserto
Atterrai a Windhoek, la capitale della Namibia, e dopo una breve sosta per organizzarmi, mi diressi verso Sossusvlei, la porta d’ingresso al deserto del Namib. Il viaggio in jeep attraverso il deserto era già di per sé un’esperienza ipnotica. Chilometri di nulla, interrotti solo da arbusti secchi e dalla sagoma lontana di qualche orice. Ogni tanto mi fermavo per scendere e camminare sulla sabbia calda, cercando di abituarmi alla vastità del paesaggio. Quando raggiunsi il mio punto di partenza, la vista era mozzafiato: dune enormi che si stagliavano contro un cielo azzurro e senza nuvole. Il vento soffiava leggero, sollevando granelli di sabbia che sembravano danzare nell’aria. Il caldo era opprimente, ma il silenzio era ancora più impressionante. Era un silenzio profondo, quasi tangibile, che sembrava amplificare ogni pensiero.
Mi ero preparato per questa avventura con cura: una tenda leggera, un sacco a pelo resistente al freddo notturno, acqua sufficiente per tre giorni e un GPS per orientarmi. Portavo anche un taccuino, perché sapevo che questo viaggio non sarebbe stato solo fisico, ma anche mentale. Mentre camminavo verso le dune di Sossusvlei, ogni passo sembrava simbolico, come se stessi entrando in un mondo diverso, un luogo dove le regole del tempo e dello spazio erano sospese. La sabbia scivolava sotto i miei stivali, e ogni passo richiedeva uno sforzo maggiore. Ma non era solo il corpo a essere messo alla prova: la mia mente era già in fermento, interrogandomi su cosa stessi cercando veramente.
Il deserto del Namib
Camminare tra le dune del Namib è un’esperienza che sfida il corpo e la mente. Ogni passo è come spingere il piede contro un muro che cede, affondando nella sabbia e richiedendo il doppio della forza. Ma è anche meditativo. Il ritmo lento ti costringe a rallentare, a sincronizzarti con il paesaggio. La luce cambiava costantemente. Il sole alto trasformava la sabbia in un mare incandescente, ma con il passare delle ore, le ombre delle dune cominciavano a allungarsi, creando un gioco di contrasti tra luci e ombre. Ogni duna sembrava unica: alcune si curvavano dolcemente, altre si ergevano con pendenze ripide, come onde congelate nel tempo.
Camminando, mi resi conto di come il deserto fosse una metafora perfetta della mente. Apparentemente vuoto, ma in realtà pieno di dettagli. Il suono del vento che soffiava leggero, il movimento impercettibile della sabbia e il raro avvistamento di un geko o di un orice che si spostava all’orizzonte erano piccoli promemoria della vita nascosta sotto la superficie. A un certo punto, mi sedetti su una duna per riprendere fiato. Guardando il paesaggio infinito, una domanda mi colpì con forza: "Cosa sto cercando davvero?" Era una domanda che non avevo il coraggio di affrontare fino a quel momento. Il deserto non ti permette di sfuggire a te stesso.
La zona del Deadvlei all'interno del Namib
Quando il sole iniziò a calare, il calore soffocante lasciò spazio a un’aria fresca e tagliente. Mi accampai in una conca riparata tra le dune, montando la tenda in pochi minuti. Preparai un pasto semplice, ma la fame e la fatica lo resero sorprendentemente soddisfacente. La notte nel deserto è un’esperienza unica. Il cielo si accendeva di stelle, così luminose che sembravano quasi raggiungermi. Non c’era inquinamento luminoso, né rumori umani: solo il suono del vento e il mio respiro. Mi sdraiai fuori dalla tenda, avvolto nel sacco a pelo, e fissai il cielo, lasciando che i pensieri fluissero liberamente.
Pensai alle cose che avevo sempre considerato importanti: il lavoro, le relazioni, gli obiettivi personali. Tutto sembrava così piccolo di fronte all’immensità del cielo. Mi resi conto che la felicità non è qualcosa che si raggiunge o si possiede. È un momento. È la capacità di apprezzare ciò che hai davanti a te, senza pensare a ciò che manca. In quel silenzio, con il deserto intorno e le stelle sopra di me, mi sentii incredibilmente piccolo, ma stranamente completo. Era come se, per la prima volta, stessi vedendo me stesso per quello che ero veramente, senza maschere o aspettative.
Il mattino seguente mi alzai presto, deciso a raggiungere il Deadvlei, un luogo che avevo visto solo in fotografie. Il sole non era ancora sorto, e la luce tenue dell’alba dipingeva il deserto di tonalità fredde, quasi lunari. Dakota, il mio GPS, segnalava che ero vicino, ma il paesaggio circostante non lasciava intendere ciò che mi aspettava.
Quando finalmente arrivai, il panorama mi tolse il fiato. Il Deadvlei è un antico bacino asciutto, circondato da alcune delle dune più alte del mondo. Il contrasto era mozzafiato: il terreno bianco e screpolato del bacino, gli alberi fossili neri come ombre congelate nel tempo, e le dune color arancio acceso che si stagliavano contro un cielo blu intenso. Ogni albero, secco da oltre novecento anni, sembrava raccontare una storia di resilienza e di adattamento. Pur essendo morto, ognuno di loro era ancora in piedi, scolpito dal vento e dalla sabbia, testimone del tempo e della forza della natura.
Gli alberi fossili del Deadvlei
Mi sedetti al centro del bacino, appoggiandomi a uno di quegli alberi che sembravano fuoriusciti da un dipinto surrealista. Il silenzio era assoluto. Non c’erano distrazioni, solo io, il paesaggio e i miei pensieri.
Pensai alla mia vita, a tutte le volte in cui avevo cercato di forzare una felicità che non sembrava mai durare. Mi resi conto che, come quegli alberi, la felicità non si trova inseguendola, ma accettando le condizioni in cui ci troviamo e cercando di trarne il meglio. Quegli alberi non avevano mai cercato di sfuggire al deserto. Si erano adattati, trovando bellezza anche in un paesaggio apparentemente desolato. "Chi sono? Cosa mi rende felice?" Le risposte a queste domande non erano più così urgenti. Mi accorsi che non era necessario avere tutte le risposte subito. La felicità, capii in quel momento, era la capacità di abbracciare le incertezze della vita, senza combatterle o fuggire.
Con il sole alto nel cielo e il caldo che tornava opprimente, decisi che era tempo di ripartire. Mi voltai un’ultima volta verso il Deadvlei, cercando di imprimere ogni dettaglio nella memoria. Non avevo trovato tutte le risposte che cercavo, ma avevo scoperto qualcosa di più importante: la serenità di accettare me stesso, così com’ero, con tutte le mie imperfezioni.
Il viaggio di ritorno fu più leggero. Ogni passo mi sembrava parte di una danza con il deserto, ogni granello di sabbia una lezione sulla pazienza e la resilienza.
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